Sono grato all’Università di Napoli per avermi invitato qui oggi a ricordare il prof. Paolo Gasparini. Ancora più grato sono a sua figlia Elena e alla sua compagna Chiara le quali, consapevoli della lunga amicizia e della profonda stima che ci univa, hanno espresso il desiderio che fossi anche io a ricordarlo.

Voglio ricordare Paolo percorrendo a flash quasi 50 anni di vita e alcune esperienze comuni che mi sembrano particolarmente adatte a delinearne la figura.

Siamo partiti da sponde lontane, accademicamente ostili. Paolo era a Napoli, assistente di Giuseppe Imbò, che era titolare della cattedra di fisica terrestre e quindi ope-legis anche direttore dell’Osservatorio Vesuviano.

Io ero a Pisa, assistente di Giorgio Marinelli, petrologo e vulcanologo, cui si deve fra l’altro la creazione dell’Istituto Internazionale di Vulcanologia di Catania, oggi Sezione dell’INGV.

Erano anni un po’ tristi per la comunità scientifica italiana delle scienze della terra, che era chiusa in sé stessa, con contatti internazionali scarsi o assenti, quando i lavori scientifici venivano pubblicati in italiano per lo più su riviste stampate dalle Accademie di Scienze locali e nessuno o quasi pubblicava sulle riviste scientifiche internazionali più prestigiose.

Accadde allora, intorno agli anni ’60, che l’Associazione Internazionale di Vulcanologia (della quale Paolo fu poi presidente negli anni ‘90) decise di pubblicare una nuova collana in inglese di “Cataloghi dei vulcani attivi del mondo” e l’incarico per l’Italia venne affidato ad Imbò. Quando Marinelli lesse il catalogo di Imbò sui vulcani attivi italiani andò su tutte le furie e, presa la penna in mano, scrisse e poi pubblicò una critica feroce, elencando tutta una serie di errori e di omissioni.

Questo articolo, così lontano dallo stile ovattato e ipocrita vigente a quel tempo nell’accademia italiana, fece scalpore e ne seguirono repliche e contro-repliche, nella cui stesura Imbò e Marinelli si fecero aiutare dai propri assistenti e quindi anche da Paolo e da me.

Le risate che ci si siamo fatte con Paolo, qualche tempo dopo, quando ricostruimmo quei momenti frenetici in cui eravamo stati sguinzagliati come cani da tartufo, a cercare anche la minima imprecisione nello scritto dell’avversario.

Nel giro di pochi anni, le cose a Napoli cambiarono del tutto: Felice Ippolito, che era grande amico di Marinelli, assunse la direzione dell’Istituto di Geologia; Paolo vinse il concorso a professore ordinario di fisica terrestre e divenne direttore dell’Osservatorio Vesuviano. Tra noi cominciò una collaborazione scientifica che non ebbe mai fine e con essa un lungo rapporto di amicizia e di stima.

Erano gli anni in cui veniva lanciata la teoria della “plate tectonics”, che rivoluzionò il modo di pensare alla dinamica della Terra, interpretando in un quadro omogeneo e unificante i grandi processi geodinamici, dall’espansione dei fondi oceanici, alla subduzione della litosfera oceanica negli archi insulari e nelle cordigliere.

Paolo aveva promosso la creazione a Napoli di laboratori di paleomagnetismo e di geocronologia e geochimica isotopica, avvalendosi della collaborazione preziosa di Roberto Scandone e di Lucia Civetta. Io ero impegnato a fondo in un progetto italo-francese sulla “depressione dell’Afar” in Africa orientale, un sito ideale per verificare i nuovi concetti, visto che vi affiorava l’equivalente geologico di un fondo oceanico (ma senza acqua), e al quale furono poi associati anche Lucio Lirer di Napoli e Luigi La Volpe di Bari.

Nacquero allora i nostri studi, cui parteciparono tra gli altri, anche Fabrizio Innocenti di Pisa e Lillo Villari di Catania, sulla ricostruzione della geodinamica del Tirreno meridionale e anche della Giordania, dove avevamo organizzato una spedizione scientifica; studi che produssero in pochi anni varie pubblicazioni su riviste internazionali. Ricordo ancora la soddisfazione con la quale, poco tempo fa, Paolo mi fece notare che uno di quei lavori risultava fra i più citati a livello internazionale degli ultimi 30 anni.

Non posso non ricordare l’incredibile esperienza, nel 1976, del vulcano La Soufrière in Guadaloupe, nelle Antille francesi. Da qualche tempo il vulcano era sede di un’intensa attività sismica, con forti emissioni fumaroliche e qualche esplosione. Era forte negli scienziati francesi la memoria dell’eruzione esplosiva del 1902 della Montagna Pelèe, nella vicina isola della Martinica, che aveva distrutto la cittadina di St. Pierre e ucciso i suoi 27.000 abitanti.

Visto che il monitoraggio geofisico consisteva solo di una rete sismica, decisero di chiedere l’intervento di geofisici dei Laboratori di Los Alamos negli USA, per controllare i movimenti del suolo, in particolare il suo sollevamento, che è un precursore caratteristico delle eruzioni. Al loro sbarco alla Guadaloupe, i geofisici americani devono essere stati contagiati dal timore dei colleghi francesi di una possibile imminente eruzione catastrofica; fatto sta che piantarono i loro clinometri e di lì a poche ore dichiararono che era in atto un forte sollevamento del vulcano e si reimbarcarono in tutta fretta per gli USA. Nel frattempo un geofisico dell’Osservatorio Sismologico di Trinidad aveva dichiarato che nel materiale emesso dalle esplosioni del vulcano c’era una quantità crescente nel tempo di nuovo magma, che questo indicava a suo giudizio che il magma si stava avvicinando alla superficie e che l’eruzione era quindi da considerarsi imminente. Sulla base di questi pareri, le autorità francesi decisero, il 15 agosto 1976, di evacuare per motivi precauzionali la zona intorno al vulcano, compresa la città di Basse Terre con i suoi 73.600 abitanti.

Il vulcanologo Haroun Tazieff, ben noto al grande pubblico francese, aveva intanto controllato con i suoi ricercatori la composizione dei gas emessi dalle fumarole del vulcano e riteneva di non aver trovato evidenze della presenza di gas magmatici. Aprì quindi una fortissima polemica pubblica, dichiarando a più riprese che l’evacuazione era inutile. La polemica montò giorno dopo giorno, con da una parte tutta la comunità scientifica ufficiale e dall’altra il solo Tazieff che però aveva un forte appeal sui mass-media. Intanto passavano i giorni e le settimane e crescevano il disagio e le proteste degli oltre 70.000 evacuati.

Per venire a capo della controversia, il governo francese incaricò il CNRS di nominare una Commissione internazionale di esperti. A presiederla fu nominato il sismologo americano Franck Press e furono chiamati a farne parte il giapponese Aramaki, l’islandese Sigvaldason, l’americano Fiske e due italiani, Paolo Gasparini ed io. Paolo ed io chiedemmo di visitare il vulcano prima della riunione della Commissione a Parigi e lo stesso fecero Aramaki e Sigvaldason.

Arrivammo così, nel novembre 1976, alla Guadaloupe e fummo accompagnati a quello che veniva chiamato “l’Osservatorio”. In realtà era un vecchio forte, posto sulla riva dell’oceano ai piedi del vulcano, dove arrivavano i segnali delle stazioni sismiche e dove vivevano rinchiusi pochi ricercatori che avevano il divieto assoluto di uscire dal forte; poco al largo nel mare era ancorato un incrociatore della marina francese con un elicottero pronto a decollare per mettere in salvo i ricercatori, non appena fosse iniziata l’eruzione.

L’atmosfera ci ricordò subito quello del romanzo di Buzzati “Il deserto dei Tartari”, dove pochi soldati vivono in una fortezza ai limiti di un deserto pietroso e temono l’imminente attacco di un nemico soverchiante, dal quale non avranno scampo. Il timore di essere aggrediti è talmente forte e angoscioso e l’attesa così tremenda, che arrivano inconsciamente a sperare, quasi ad auspicare che questo attacco infine arrivi e li travolga.

Contravvenendo il divieto assoluto e dopo molte insistenze, riuscimmo a salire al cratere del vulcano: ci accorgemmo subito che i clinometri di Los Alamos erano stati installati su un terreno totalmente instabile e che quindi i loro dati non erano attendibili; osservammo, in lungo e in largo, fra le fumarole il materiale emesso dalle esplosioni, senza trovarvi alcun frammento, alcuna traccia di magma fresco. Tornati all’Osservatorio chiedemmo di esaminare al microscopio i campioni, nei quali era stata dichiarata la presenza dell’80% di vetro magmatico fresco e anche in quelli non ne trovammo traccia. Trovammo materiale argilloso e minerali di alterazione idrotermale e questo ci confermò nell’opinione che già ci eravamo fatti sul cratere: le esplosioni che si erano prodotte erano di origine freatica o idrotermale. Nessun magma fresco era stato emesso! Dello stesso parere furono Aramaki e Sigvaldason.

Arrivati a Parigi, partecipammo ad una serie di riunioni stressanti, spesso sgradevoli, nelle quali la scienza ufficiale francese cercò in tutti i modi di convincere la Commissione che c’era il pericolo di un’eruzione imminente. Alla fine la Commissione redasse un rapporto nel quale si concludeva che l’attività era freatica, che avrebbe potuto evolvere verso un’eruzione magmatica ma che questa avrebbe dovuto dare chiari segnali precursori e che quindi non vi erano ragioni per mantenere l’evacuazione. Raccomandammo anche una completa riorganizzazione e modernizzazione della vulcanologia in Francia che negli anni successivi fu effettivamente realizzata.

Nel salutarci, alla fine delle riunioni, il presidente Franck Press si rivolse a Paolo e a me dicendo: “la raccomandazione che avrei voluto fare è la seguente: use France money and Italian brains”. Solo per la cronaca: era il 1976 e l’eruzione della Soufrière deve ancora avvenire.

E subito dopo furono gli anni del “Geodinamica”. L’Unione Internazionale delle Scienze Geologiche e quella delle Scienze Geofisiche e Geodetiche avevano lanciato l’International Geodynamics Project e con Paolo riuscimmo a fare approvare e finanziare dal CNR il Progetto Finalizzato Geodinamica (PFG) che aveva come obiettivo fondamentale lo sviluppo di ricerche multidisciplinari coordinate per la valutazione e riduzione dei rischi sismico e vulcanico in Italia.

Il PFG è stato senza dubbio il più grande sforzo di ricerca coordinata realizzato in Italia, con oltre 1.000 ricercatori partecipanti, da tutte le università e istituti di ricerca italiani, che variavano per specializzazione dalla geologia strutturale, alla neotettonica, all’ingegneria sismica, alla vulcanologia, alla sismologia, alla fisica terrestre, alla geochimica.  Paolo fu il primo direttore del Progetto, mentre io dirigevo il sotto-progetto “rischio vulcanico”; dopo due anni sostituii Paolo alla direzione e il mio posto fu preso da Giuseppe Luongo di Napoli. Parteciparono al progetto tutti i principali scienziati italiani dei settori prima elencati, tra i quali voglio ricordare Marcello Carapezza, Giuseppe Grandori, Paolo Scandone che, come Paolo Gasparini, oggi non ci sono più.

I risultati, lasciatemelo dire, furono eccezionali: furono prodotti il modello strutturale e la carta neotettonica d’Italia, un nuovo catalogo dei terremoti; con rigorosi criteri scientifici, fu prodotta e poi fatta approvare, la prima classificazione sismica del territorio nazionale; furono realizzate mappe geologiche e di pericolosità dei vulcani attivi italiani e furono create le prime reti geofisiche e geochimiche di monitoraggio dei vulcani; furono realizzati manuali tecnici per gli interventi di consolidamento sismico delle cosiddette vecchie costruzioni cioè di quelle (la maggioranza) che erano state realizzate prima della classificazione sismica del territorio; furono, infine, gettate le basi per una cultura della prevenzione dei rischi sismico e vulcanico.

Chi avesse la pazienza di rileggersi qualcuna delle pubblicazioni del Progetto Geodinamica, in particolare il volumetto intitolato “La difesa dai terremoti” stampato nel 1980 dal Senato della Repubblica, vi troverebbe le ragioni del perché terremoti, anche di energia non elevatissima, causano così tanti morti in Italia e le linee essenziali di una politica di prevenzione del rischio sismico, delle quali il governo italiano ha cominciato a parlare solo dopo il terremoto di Amatrice di quest’anno.

Dal Progetto Geodinamica nacquero due gruppi di ricerca del CNR, uno dedicato alla “Difesa dai terremoti”, l’altro alla “Vulcanologia” che Paolo diresse alla fine degli anni ’90, poi confluiti nell’INGV, insieme con l’Osservatorio Vesuviano e altri istituti di ricerca del CNR.

Anche negli anni successivi, la collaborazione con Paolo continuò ad essere intensa: visitammo insieme il Servizio Vulcanologico Indonesiano e i principali vulcani attivi dell’isola di Giava; nel viaggio aereo di ritorno da un congresso internazionale in Australia, impiegammo il tempo a scrivere un articolo di review sui “Volcanic Hazards”.

E arriviamo ai tempi attuali. Sono profondamente grato a Paolo per la splendida perizia tecnico-scientifica che redasse nel 2012 per il processo di I grado dell’Aquila. Ricordo ancora con emozione la sua testimonianza al processo, che scagionava me e gli altri componenti della Commissione Grandi Rischi della protezione civile dall’accusa di essere responsabili della morte di 300 persone nel terremoto del 6 aprile 2009.

Purtroppo la sua perizia, come tanti altri fatti, venne ignorata dal giudice e fummo condannati. Ricordo il suo dispiacere, il suo dolore alla notizia della condanna.

Poi nel 2014, il Tribunale d’Appello la lesse invece attentamente, tanto che la citò nella sentenza con la quale fummo finalmente assolti, poi confermata dalla Cassazione. E ricordo anche la sua telefonata di gioia.

Nel mese di luglio di quest’anno ricevetti una telefonata da Paolo: era all’ospedale di Pisa, era stato operato (mi hanno rifatto il circuito idraulico, disse ironicamente) ma lo trovai su di morale e pieno della consueta vitalità. Pochi giorni dopo una telefonata mi informò della sua morte. Rimasi agghiacciato, sentii subito un grandissimo senso di vuoto, una grandissima mancanza.

Subito dopo mi salì allo spirito il saluto che gli antichi romani rivolgevano ai loro grandi morti e che voglio, oggi, qui ripetere insieme con voi:

Paolo, che la terra ti sia lieve”.

Napoli, 25 novembre 2016

 

Ricordo di Paolo Gasparini

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